Inauguro oggi una rubrica, della quale probabilmente poco ve ne
fregherà, ma verso la quale io nutro sconfinato e smisurato amore: I libri che
mi hanno cambiato (la vita e non solo).
Fino ai dodici anni sono stata una bambina relativamente
normale. Quando mi chiedevano che cosa volessi fare nella vita rispondevo la
cameriera (strano ma vero), il medico, la giornalista o qualsiasi risposta del
genere. Tutte ipotesi abbastanza realistiche. Poi a dodici anni, il patatrac:
mi sono innamorata. E mica di una tenera passione infantile, no, un amore
forsennato e totalizzante. Mi sono innamorata della saga della famiglia
Malussène.
Comprendetemi: ho sempre amato leggere. Sono rimaste famose in
famiglia le mie maratone di lettura, record imbattuto i primi quattro Harry
Potter, letti tutti d’un fiato in tre giorni e dieci ore, con pause per
dormire. Fino a dodici anni mi era sempre stata inculcata la nozione che a chi
piace leggere deve piacere per forza anche scrivere. Per quanto mi riguarda mi
posso produrre in racconti, a sedici anni ho avuto anche io quell’irritante
fase delle poesie d’amore (brutte, per carità, bruttissime). Ma un libro? Non
credo riuscirei mai a produrre un qualcosa
che abbia un senso compiuto più lunga di 10 pagine. A 12 anni meno che mai. La
precoce e melodrammatica consapevolezza che pur amando i libri, non ne avrei
mai scritto uno (si, ero molto melodrammatica già in tempi in cui le altre
bambine giocavano con le Barbie), ecco, questa consapevolezza mi logorava.
Al di là dell’innocenza che può trasparire dall’amore per un libro (o come in questo caso, più libri), se adesso studio quello che studio, lo devo a Daniel Pennac. In particolare ad un suo personaggio. Certamente, Julie è avventurosa, una donna che sa il fatto suo, ma difficilmente mi sarei mai vista ad operarmi di appendicite da sola o a resistere alle torture. Benjamin Malaussène è dolcissimo, responsabilissimo, ma una vita da capro espiatorio non fa per me. Clara ha la sua fotografia, ma per una che finisce sempre per mettere il dito sull’obbiettivo mentre scatta, non è il massimo. Jeremy troppo teppistello, il Piccolo troppo piccolo, Therèse troppo veggente. E poi c’è lei: Isabelle, o meglio la Regina Zabo.
Poi ho letto di questa donna, che i libri li creava senza
scriverli: la Regina Zabo i libri li fa scrivere ad altri. Eppure, quando un
libro esce è in parte anche suo. Lei ha coccolato J.L.B., lei cura, taglia,
deride i libri scritti male. Lei può. La Regina Zabo sa riconoscere un
inchiosto scadente, la grammatura della carta e la provenienza. La Regina Zabo
ama i libri, li legge e li domina anche materialmente.
Dai dodici anni in poi, alla domanda “Che lavoro vuoi fare da
grande?”, la risposta (a parte qualche altro fugace flirt con altre
professioni) è stata “L’editrice”. E più o meno la gran parte delle scelte
fatte nella mia vita sono state orientate a raggiungere questo obbiettivo.
Magari qualcuno avrebbe dovuto dirmelo che l’editoria era in
crisi. Sarei partita più preparata. Ma sarei partita comunque.
Il fatto che adesso si siano decisi a fare un film su Il
paradiso degli orchi, poi, è stato il più bel regalo di Natale che potesse
arrivarmi (in anticipo).
-Lo sai che probabilmente lo criticherai dall'inizio alla fine e
che ti deluderà? - mi ha fatto notare una mia amica.
-Certo, è per questo che non vedo l'ora. Adesso potrò fare la
spocchiosa, quando la gente mi dirà che ha visto il film, ma non ha letto il
libro. Potrò ergermi e dire: "Il libro è molto meglio,anzi, dovresti
leggerlo, quello e tutto il resto della saga". Solo allora la mia felicità
sarà piena ed i miei oscuri riferimenti comprensibili al resto del mondo (e del
volgo).
Vostra e sciagattante,
Platypus
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